ROBERTO OSCULATI

Ordinario di Storia del Cristianesimo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania
(1987 - 2012)
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Symbolum unitatis et caritatis,

presentazione di F. D. Tosto, Calvino punto di convergenza, ESI, Napoli 2003, XVII-XX.

Nella storia della teologia cristiana, a partire dal secolo XVI, il rito dell'eucaristia diviene un punto di attrito tra le chiese cristiane che vanno separandosi le une dalle altre. Il Concilio di Trento notava il paradosso: il segno più intenso dell'unità dei discepoli con il Maestro era divenuto occasione dei loro conflitti. Soprattutto l'evangelo di Giovanni aveva interpretato il gesto di Gesù come un vincolo di dedizione, di amore, di comunione. Ma dispute violente ed acri anatemi ormai circondavano i simboli del corpo donato e del sangue versato. Ognuno dei contendenti credeva di dover difendere la causa dell'evangelo dalle pericolose od erronee concezioni dei suoi avversari, ognuno sembrava doversi fare paladino di una verità incontrovertibile ed essenziale.

Come molti altri problemi sollevati in quell'epoca tormentata e risolti con anatemi e separazioni, alla radice stava la nozione cristiana della salvezza. Il sacramento indicava il modo della presenza di Cristo tra i suoi dopo la sua glorificazione e in attesa del suo ritorno, ma solo la sua autorità, testificata dalle Scritture poteva fissare il carattere ed il numero di questi riti. Già la scelta esclusiva del battesimo e dell'eucaristia da parte delle riforme nordiche indicava la via seguita nel riesaminare la prassi della chiesa. La nozione di sacramento era stata assai elastica fino allo svilupparsi della teologia universitaria, che ne aveva scelto sette nella moltitudine dei simboli liturgici. Il riesame dei riformatori voleva individuare quali di questi potessero risalire ad un'esplicita volontà di Cristo: egli solo infatti poteva impegnare la sua grazia e vincolarla a gesti comunitari. Nessuna autorità terrena poteva sovrapporsi alla sua scelta o manipolarla a proprio giudizio. Così soltanto il battesimo e l'eucaristia superarono l'esame delle Scritture neotestamentarie e già, del resto, i teologi medievali li avevano considerati come sacramenti principali, ben diversi dagli altri. Il primo infatti indicava l'inizio della comunione tra il risorto ed i suoi, il secondo la più intensa unità dei singoli e della comunità ecclesiale con il Signore e Maestro. L'immagine paolina del mistico corpo di Cristo e quella giovannea dell'unità nell'amore costituivano il sostrato delle analisi concettuali e ad esse andavano sempre ricondotte per non perdersi nei meandri delle ipotesi e delle sottigliezze di scuola.

La corretta celebrazione dei riti, a norma delle Scritture, rendeva sempre di nuovo presente l'annuncio della grazia da accogliersi con fede e da testimoniare con le opere: su questo nucleo essenziale tutti erano d'accordo, ma le condizioni e le caratteristiche di questa presenza potevano essere soggette ad un notevole varietà di interpretazioni. La promessa di perdono, di grazia e di giustizia, fondata sulla volontà divina di Cristo ed espressa dalla sua umanità, era affidata alle chiese ed entrava nell'ambito della loro autocoscienza teologica e pratica. Questa a sua volta era frutto di un lungo percorso storico ed era coinvolta in molte vicende che non sempre facevano apparire la luce dell'evangelo.

Una violentissima controversia era esplosa a proposito del battesimo, per stabilire se si avesse il diritto o dovere di conferirlo anche a chi non era in grado di aderire personalmente al significato del rito. Presupponeva una libera adesione dell'adulto o doveva essere conferito ed aveva efficacia anche nei primi giorni di vita? Esigeva una rigorosa e libera adesione alla lettera dell'etica evangelica o era il segno collettivo di una comunità non necessariamente impegnata ad osservarla in tutti i particolari in attesa di un lungo processo di redenzione ancora ai suoi inizi? Tra le parole di Gesù e la vita delle sue comunità a molti sembrava che si fosse creato un divario e per chi legava il sacramento all conformità morale con l'evangelo l'usuale rito ecclesiastico sembrava ingannevole e vuoto. Da che cosa era garantita la presenza di Gesù tra i suoi? Da una formalità o da una coerente adesione? La controversia battesimale, forse ancor più di quella eucaristica, poneva a tutte le chiese, allora in grande agitazione, un quesito cui non era facile rispondere. Fu pertanto quasi ovunque soffocata con la violenza, ma rimane sempre un indice sensibilissimo del disagio diffuso nei confronti di riti ecclesiastici ripetitivi e spesso molto formali.

La controversia eucaristica, con le sue sottili distinzioni concettuali, si aggira attorno ad un problema simile: come può essere concepita la presenza di Gesù tra i suoi durante la celebrazione del rito da lui stesso iniziato? L'ostilità degli evangelici verso la terminologia cattolica della transustanziazione probabilmente veniva dal timore di vedere ridotto l'ordine della grazia ad un oggetto manipolato a suo piacere dalla gerarchia ecclesiastica. Il Cristo sembrava rinchiuso in artifici ecclesiastici, nell'esercizio di una sorta di potere umano sulle realtà spirituali e salvifiche, riducendo così la grazia ad un sistema dominato dal clero a suo piacimento. Le parole consacratorie del sacerdote sembravano creare l'illusione di una produzione autonoma, che potesse essere usata per un calcolo di meriti e di interessi sovente anche materiali, utilizzabili nelle più diverse circostanze. La chiesa si era impossessata di Cristo e lo usava per se stessa e per chi ad essa si affidava. Tutto ciò era lontanissimo dalle prospettive dei teologi degli ultimi secoli, a cominciare da Bonaventura e Tommaso, ma poteva apparire nella pratica di molti o in linguaggio retorico e propagandistico.

All'estremo opposto sembrava porsi la razionalità di Zwingli, che per cattolici e luterani sembrava svuotare completamente il segno sacramentale facendone memoria e ideale morale. Contro di lui Lutero ribadiva la presenza del Cristo assieme a quella dei simboli che lo rappresentavano e rifiutava i tentativi di una spiegazione razionale del mistero. Calvino ebbe modo di riflettere su una controversia che durava da due decenni e venne elaborando un'ipotesi teologica caratteristica del suo spirito sistematico e suggerita dall' esegesi giovannea e dalle letture patristiche.

Il problema dei riti ecclesiastici, in particolare del battesimo e dell'eucaristia, andava rivisto nel suo contesto proprio, quello dell'esperienza ecclesiale dello Spirito. La teologia cristiana ha una sua organicità, che Calvino volle esporre nel suo manuale e nei suoi commentari biblici. La presenza del Cristo nella celebrazione della sua cena non deve essere spiegata nè con le categorie intellettuali cattoliche, di origine aristotelica, nè con l'impulsività luterana, nè con le sottigliezze umanistiche di Zwingli. Il rito cristiano e la sua simbologia sono da considerarsi come un riflesso della trascendenza, dove il Cristo glorificato è giunto con la sua umanità ed opera per la salvezza dei suoi. Il simbolo sacramentale da lui scelto garantisce la comunione con lui, la indica, la rende presente ed operante nella vita della sua comunità.

Tra simbolo terrestre e realtà trascendente c'è un legame diretto, intenso e necessario, fondato sulla volontà di Cristo. La gloria del risorto, nella sua umanità e divinità, dà testimonianza di se stessa nell'ordine terrestre in attesa del suo compimento. La teologia del sacramento è ricondotta alla concezione tipicamente cristiana del divino e della sua rivelazione, come l'avevano elaborata i concili del IV e V secolo, e trova il suo posto in un sistema dottrinale che ebbe grande diffusione. Dopo quattro secoli di controversie esso rimane quale punto di riferimento chiaro ed organico per tutte le chiese cristiane. Oltre ogni disputa, rivalità o malinteso, si tratta di uno sforzo sincero e profondo di interpretare il più importante segno liturgico della tradizione cristiana in modo coerente con i dogmi centrali della fede.

Da un punto di vista pratico si può solo ribadire la necessità di svolgere attentamente anche l'aspetto morale del simbolo, come veniva richiesto per il battesimo e come sempre sottolinearono i teologi più sensibili di tutte le confessioni. Il Nuovo Testamento lo esige, al di là di ogni concettualizzazione ed esigenza teorica, lo indicarono ampiamente vescovi antichi, come Giovanni Crisostomo, i monaci, la scolastica, la teologia umanistica, quella barocca e dei secoli successivi. Per il cattolicesimo basti ricordare l'enciclica Mirae caritatis di Leone XIII. Il rigore dogmatico ed intellettuale non deve nascondere il carattere eminentemente pratico dell'evangelo e dei simboli che lo testimoniano nella celebrazione comunitaria. Le diverse chiese cristiane sembrano dare oggi ascolto alla miriade delle voci ammonitrici che per secoli hanno guardato con diffidenza lo svolgersi delle controversie dottrinali. La simbologia comunitaria del rito deve esprimere tutto quanto è sedimentato nel canone neotestamentario e viene continuamente rivissuto da chi lo considera una perenne ed autentica luce sul tortuoso cammino dell'umanità. "Ex fructibus eorum...": è pur sempre la prova più efficace di ogni verità.

Roberto Osculati